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lunedì 23 gennaio 2012

Copertoni nei forni così cuoce il pane low cost - Copertoni e bare nei forni romeni cosi' cuoce il nostro pane low cost


NON è vero che per arrivare all' alba non c' è altra via che la notte: nei forni della Transilvania, quando nasce il sole, il pane è già partito. Lo sfornano, lo congelano, lo impacchettano. E lo spediscono in Italia. Tutti i giorni. A tutte le ore. SUI Tir frigoriferi e in aereo quello diretto a Nord (molto Veneto e Friuli Venezia Giulia). Via Croazia, e poi attraverso l' Adriatico, se va al Centro o a Sud. A San Marino importato dalla camorra per le mense scolastiche. In Sicilia, in Abruzzo, nel basso Lazio. Altro che truffe telematiche: è la baguette il nuovo miracolo romeno. Ma non si deve dire. Perché con la globalizzazione, in certe filiere alimentari, l' ufficialità può essere sconveniente. E così come in una favola ancora da scrivere il filone di Dracula - costo: meno della metà di quello italiano; durata: due anni; giro d' affari: 500 milioni - diventa un segreto di Pulcinella. Tutti lo sanno, ma è più commerciale dissimulare. «Non abbiamo rilasciato licenze per esportare pane in Italia», dice Grigore Onaciu, capo della direzione agricola di Cluj Napoca. Intrigante la versione dell' associazione panificatori: «Non sappiamo se qualche azienda vende in Italia». Sembrano cadere dalle nuvole anche negli uffici della sanità alimentare: «Autorizzazioni? Boh...». Come mai questa linea d' ombra se poi nei nostri super e ipermercati le derrate di pane romeno precotto vanno alla grande e al Nord un filone su quattro arriva da qui? «Può sembrare insensato, ma troppa pubblicità è negativa», spiega un esportatore che lavora per quattro grandi forni sparsi tra Timisoara, Bucarest e Cluj. Nei periodi di crisi, la concorrenza, lealeo sleale, fa più paura. «Gli ipermercati italiani mollerebbero, e calerebbero le ordinazioni. Ci paragonerebbero a una piccola Cina, e invece siamo un Paese comunitario». Più che una commedia degli equivoci pare un gioco delle parti.E dunque: il viaggio del pane dell' Est conviene raccontarlo al contrario. Partendo dalla data di scadenza, da quei numeri stampati su confezioni essenziali: contrappasso perfetto del packaging ammiccante dei nostri marchi. Una sola scritta. Impressa dalla grande distribuzione per rassicurare restando sul vago: «Prodotto sfornato e confezionato in questo punto vendita». Mavalà. Prodotto sfornato e confezionato qui, lungo il Danubio, nella gelida Transilvania di cui Cluj è stata capitale (oggi con le sue università e la sua azienda siderurgica è la terza e più evoluta città della Romania). E a Costanza, e a Timisoara dove ormai ci sono più imprese italiane che romene, e nella vecchia zona industriale di Bucarest. Immaginate una filiera unica. Con due linee produttive. Una moderna, tecnologicamente all' avanguardia. Come questo bestione inaugurato tre mesi fa a Campia Turzii, mezz' ora di macchina da Cluj. La Lorraine. Una joint venture belga-romena per un impianto modello costato 14 milioni (5 dall' Unione europea) che viaggia a una velocità oraria di 1250 kg di pane. Tutto è automatizzato: dall' impasto dei cereali al confezionamento. Cuociono a 205 gradi, poi una botta a meno 25. I dieci operai sembrano tecnici dei Ris, la pulizia è maniacale. Pensi ai disastri di Ceausescu e invece ti trovi davanti una Cupertino del pane. Dice il viceconsole italiano, Radu Pescaru: «Loro sono un gioiellino. Poi però ci sono anche realtà diverse». Già. A 440 chilometri da Cluj, ecco le banlieues industriali di Bucarest. Nei forni a gestione familiare - ma che immettono merce nei pochissimo snob binari dell' export - filoni e baguette li cuociono replicando o forse ispirando certe abitudini camorristiche napoletane: si utilizza legna di dubbia provenienza, scarti di bare, residui di traslochi e scheletri di fabbriche dismesse (sono migliaia). Persino pneumatici. Le celle frigorifere finiscono il lavoro. Un chilo di pane costa 60-80 centesimi. Massimo, 1 euro. Qui come a Timisoara.A Venezia ce ne vogliono 3,87. Il risultato sono i 4 milioni di chili di pane surgelato prodotti ogni anno da queste parti. Dicono i consumatori di pane low cost che dopo il ritorno in vita nel fornetto - otto minuti a 210 gradi, - fa la sua figura. Il mercato ci crede. Più della metà dei filoni che mangiamo nelle mense e nei bar vengono dai forni di Romania, Moldavia, Slovenia. «C' è molta omertà - ragiona Luca Vecchiato, il più antico forno di Padova, già presidente nazionale di Federpanificatori - la nostra denuncia e l' inchiesta di Repubblica hanno scoperchiato un vaso di Pandora. Adesso si sono chiusi tutti a riccio». Va detto, ed è questo che fa imbestialire i 24 mila fornai italiani, che le importazioni sono perfettamente conformi alla legge. Finché l' Europa non imporrà l' obbligo di indicare la provenienza del prodotto in etichetta, chi fa arrivare pane da fuori può vivacchiare con quel generico «sfornato e confezionato in questo punto vendita». Ben sfornati in Romania. 

dal nostro inviato PAOLO BERIZZI

Fonte:  La Repubblica 

domenica 22 gennaio 2012

La qualità dell'alimentazione. Un nuovo indicatore del benessere


17/01/2012 - Il BES, nuovo indicatore del progresso della società italiana che indica il "benessere equo e sostenibile" e integra il Pil con altri elementi è attualmente allo studio di Cnel e Istat. 

Non è solo una questione di immagine o un luogo comune: gli italiani amano mangiare bene, legano fortemente il concetto di qualità della vita al rapporto con il cibo e in tutto il mondo si usa dire “in Italia si mangia bene e dunque si vive bene”. D’altronde la stessa Dieta Mediterranea, oggi riconosciuta come patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, ha le proprie radici e i riferimenti principali proprio nei modelli alimentari del nostro Paese e del nostro Sud Italia in particolare (anche se più che ai suoi “ingredienti” dobbiamo guardare ai suoi principi, che possono essere validi in tutto il mondo).

Non dobbiamo però fermarci a queste nozioni di massima, note a tutti e più o meno condivise. Affermare che la qualità dell’alimentazione costituisce un utile indicatore della qualità del benessere di quella comunità è un concetto che possiamo tranquillamente applicare in tutto il mondo, avendo ovviamente cura di prendere in considerazione le diversità del contesto ambientale, culturale, economico, sociale e storico.

A maggior ragione, pertanto, l’Italia può e deve essere il primo Paese al mondo a dare rilevanza alla qualità dell’alimentazione tra gli indicatori che saranno utilizzati in futuro per sostituire il PIL: dopo di noi altri potranno adottare questo stesso parametro e dal nostro lavoro potranno trarre ispirazione.
E’ bene quindi considerare quali sono gli elementi che entrano in gioco quando parliamo di qualità dell’alimentazione. Evidentemente il nostro primo pensiero va al piacere gastronomico, che è fisiologicamente legato all’atto del nutrirsi e dunque non deve essere richiamato solo in riferimento a pasti eccellenti: dobbiamo ricercare il piacere gastronomico anche nella nostra quotidianità. Tuttavia nel contesto in cui ci troviamo a ragionare, è opportuno concentrare la nostra attenzione su altri aspetti.

In primo luogo dalla qualità della nostra alimentazione dipende in buona parte la qualità della nostra salute. Oggi si potrebbe quasi affermare il contrario, in realtà: la scarsa qualità della nostra dieta quotidiana è la principale responsabile delle più diffuse e gravi patologie con cui si confronta il sistema sanitario dei Paesi ricchi (più avanti faremo cenno ai Paesi poveri e alle sacche di povertà – purtroppo crescenti – nei Paesi ricchi). Una dieta sana, equilibrata, che rispetta i principi che esporremo di seguito, ci aiuta a stare meglio, a vivere meglio e più a lungo, dunque è innegabile che incida fortemente nel determinare il grado di benessere nostro e della comunità in cui viviamo.

In secondo luogo dalle nostre scelte alimentari dipende in buona parte la qualità dell’ambiente in cui viviamo: privilegiando prodotti freschi, di stagione, biologici e provenienti da produzioni locali, diversificando la nostra dieta con molte specie e varietà diverse e riducendo gli sprechi alimentari favoriremo un’agricoltura sostenibile che non inquina, non preleva dalla natura più risorse di quelle che sarebbero a nostra disposizione, mantiene il paesaggio e conserva saperi tradizionali. Se mangiamo meglio è migliore l’ambiente in cui viviamo e quindi ne ricaviamo indirettamente un secondo beneficio in termini di benessere nostro e della nostra comunità.

In terzo luogo, operando scelte alimentari attente siamo in grado di favorire una maggiore giustizia sociale: pagare il giusto costo per i nostri cibi e fare in modo che ai produttori venga riconosciuto il giusto prezzo. Ne ricaveremo un beneficio economico (non dobbiamo spendere una quota eccessiva del budget famigliare per alimentarci bene e risparmiamo altri costi come quelli per le cure mediche) e genereremo una maggiore e più diffusa ricchezza per le persone che vivono vicino a noi. Un benessere più diffuso, che crea minori disuguaglianze.

Altri ancora sono gli elementi che entrano in gioco, al punto che si potrebbe affermare senza dubbio che il cibo è forse il più centrale e strategico degli indicatori di benessere: basta analizzare le 12 dimensioni già individuate e provare a relazionarle con la produzione, trasformazione, distribuzione e consumo del cibo per scoprire che nessuna di esse è così interdipendente come lo è il cibo.

Quali strumenti utilizzare per definire la qualità dell’alimentazione di una comunità? Certamente il tema è complesso e la risposta non può essere semplice e immediata. Occorre avviare una riflessione coinvolgendo diversi attori che possono portare un contributo alla costruzione di quei riferimenti che potranno essere utilizzati per mettere a punto gli strumenti di cui il lavoro di costruzione del BES deve per forza dotarsi. Tuttavia possiamo iniziare a suggerire alcuni criteri che possono essere studiati per valutare il livello qualitativo complessivo dell'alimentazione di una società:

  • quantità di prodotti stagionali sul totale dei consumi giornalieri
  • distanza percorsa dal cibo dalla produzione al consumo
  • quantità di prodotti freschi sul totale dei consumi giornalieri
  • quantità di cibo sprecato in relazione a quello prodotto e consumato
  • quantità di piatti cucinati espressi rispetto al totale dei consumi giornalieri
  • varietà della dieta (specie vegetali e razze animali che entrano in gioco complessivamente)
  • elementi nutrizionali (non solo calorie consumate rispetto al fabbisogno ma anche equilibrio tra i vari alimenti, ad esempio con contenuti consumi di carne rispetto ad altri cibi)

Ovviamente tutto questo è solo un sintetico e generico contributo, non certo un trattato scientifico per definire i termini che permetteranno di inserire la qualità dell’alimentazione nelle dimensioni del BES. Mi auguro però di aver fornito sufficienti stimoli per far sì che la proposta venga presa in considerazione e si creino le condizioni perché ciò che ho auspicato si possa realizzare.

Tu cosa ne pensi? Quali sono secondo te gli indicatori da prendere in considerazione?

Roberto Burdese, presidente Slow Food Italia

Fonte: Slow Food 

sabato 21 gennaio 2012

IL GOVERNO MONTI FA MARCIA INDIETRO: LA RIPUBBLICIZZAZIONE DELL'ACQUA È POSSIBILE

COMUNICATO STAMPA


La mobilitazione paga: il popolo dell'acqua ha costretto il Governo a
ritirare il provvedimento che vietava la gestione del servizio idrico
attraverso enti di diritto pubblico, quali le aziende speciali.

È una vittoria dei cittadini e dei comitati che in tutto il paese
hanno fatto sentire forte la loro voce in difesa del voto referendario.

Rimane ampiamente negativo il giudizio del Forum Italiano dei Movimenti
per l'Acqua sul decreto liberalizzazioni che, a dispregio voto del
giugno scorso, peggiora le già pessime misure del precedente Governo
sulla privatizzazione degli altri servizi pubblici locali.

La mobilitazione del popolo dell'acqua continua per la piena attuazione
del risultato referendario: avanti tutta con la ripubblicizzazione del
servizio idrico e la campagna di obbedienza civile per una tariffa
corretta e coerente coi referendum. Si scrive acqua, si legge
democrazia.

Roma, 20 gennaio 2012
--
Luca Faenzi
Ufficio Stampa Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
 ufficiostampa@acquabenecomune.org [5]
 +39 338 83 64 299 [6]
Skype: lucafaenzi
Via di S. Ambrogio n.4 - 00186 Roma
Tel. 06 6832638 [7]; Fax. 06 68136225 [8] Lun.-Ven. 10:00-19:00
 www.acquabenecomune.org [9]
www.referendumacqua.it [10]

lunedì 16 gennaio 2012

ACQUA PUBBLICA - DIRITTO ALLA VITA




SALVIAMO IL REFERENDUM DELL’ACQUA

            TRADIMENTO MONTI

Era il 13 giugno , esattamente 7 mesi fa ,quando 26 milioni di italiani/e sancivano l’acqua bene comune :”Ubriachi eravamo di gioia… le spalle cariche dei propri covoni!(Salmo,126)
E oggi,13 gennaio ritorniamo a “seminare nel pianto..” (Salmo,126) perché il governo Monti vuole privatizzare la Madre.
Sapevamo che il governo Monti era un governo di banche e banchieri, ma mai ,mai ci saremmo aspettati che un governo ,cosiddetto tecnico, osasse di nuovo mettere le mani sull’acqua ,la Madre di tutta la vita sul pianeta.
E’ quanto emerge oramai con chiarezza dalla fase 2  dell’attuale governo, che impone le liberalizzazioni in tutti i settori.
Infatti le dichiarazioni di ministri e sottosegretari, in questi ultimi giorni, sembrano indicare che quella è la strada anche per l’acqua.

Iniziando con le affermazioni di A.Catricalà, sottosegretario alla Presidenza, che ha detto che l’acqua è uno dei settori da aprire al mercato.
E C.Passera, ministro all’economia,ha affermato :”Il referendum ha fatto saltare il meccanismo che rende obbligatoria la cessione ai privati del servizio di gestione dell’acqua, ma non ha mai impedito in sé la liberalizzazione del settore.”
E ancora più spudoratamente il sottosegretario all’economia G.Polillo ha rincarato la dose: “Il referendum sull’acqua è stato un mezzo imbroglio. Sia chiaro che l’acqua è e rimane un bene pubblico. E’ il servizio di distribuzione che va liberalizzato.”
E non meno clamorosa è l’affermazione del ministro dell’ambiente C.Clini: ”Il costo dell’acqua oggi in Italia non corrisponde al servizio reso…..La gestione dell’acqua come risorsa pubblica deve corrispondere alla valorizzazione del contenuto economico della gestione.”

Forse tutte queste dichiarazioni preannunciavano il decreto del governo (che sarà votato il 19 gennaio) che all’art.20 afferma che il servizio idrico- considerato servizio di interesse economico generale- potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando così la gestione pubblica del servizio idrico. Per dirla ancora più semplicemente, si vuole eliminare l’esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli che ha trasformato la società per azioni a totale capitale pubblico (ARIN ) in ABC (Acqua Bene Comune-Ente di diritto pubblico).

E’ il tradimento totale del referendum che prevedeva la gestione pubblica dell’acqua senza scopo di lucro. E’ il tradimento del governo dei professori. E’ il tradimento della democrazia.

Per i potentati economico-finanziari italiani l’acqua è un boccone troppo ghiotto da farselo sfuggire.
Per le grandi multinazionali europee dell’acqua (Veolia, Suez, Coca-Cola, …) che da Bruxelles spingono il governo Monti verso la privatizzazione, temono e tremano per la nostra vittoria referendaria, soprattutto il contagio in Europa.

Un potere immorale e mafioso – ha giustamente scritto Roberto Lessio, nel suo libro All’ombra dell’acqua - si sta impossessando dell’acqua del pianeta. E’ in corso l’ultima guerra per il possesso finale dell’ultima merce:l’acqua. Per i tanti processi di privatizzazione dei servizi pubblici in corso, quello dell’accesso all’acqua è il più criminale. Perché è il più disonesto, il più sporco, il più pericoloso per l’esistenza umana.”

Per questo dobbiamo reagire tutti con forza a tutti i livelli, mobilitandoci per difendere l’esito referendario, ben sapendo che è in gioco anche la nostra democrazia.

Chiediamo al più presto una mobilitazione nazionale, da tenersi a Roma perché questo governo ascolti la voce di quei milioni di italiani/e che hanno votato perché l’acqua resti pubblica .

Chiediamo altresì che il governo Monti riceva il Forum italiano dei movimenti per l’acqua,ciò che ci è stato negato finora.
Rilanciamo con forza la campagna di “obbedienza al referendum” per trasformare le Spa in Ente di diritto pubblico (disobbedendo così al governo Monti).

Sollecitiamo i Comuni a manifestare la propria disobbedienza alla privatizzazione dell’acqua con striscioni e bandiere dell’acqua.
E infine ai 26 milioni di cittadini/e di manifestare il proprio dissenso esponendo dal proprio balcone,uno striscione con la scritta :”Giù le mani dall’acqua”!
                        In piedi, popolo dell’acqua!
Ce l’abbiamo fatta con il referendum, ce la faremo anche adesso !
E di nuovo la nostra bocca esploderà di gioia (Salmo,126)

Alex Zanotelli
Napoli, 13 gennaio 2012


mercoledì 11 gennaio 2012

La storia del paese che coltiva TUTTA la sua verdura

raduzione a cura di Daniel Iversen e Lorenzo Micali
Cibo per la mente: Estelle Brown, un ex progettista d'interni residente a Todmorden, con un cesto di verdura casalinga
Bisogna ammetterlo, sembra essere uno degli atti criminosi più sconsiderati, e anche il piu sfrontato.. All’esterno della stazione di polizia nella cittadina vittoriana di Todmorden, West Yorkshire, ci sono tre grandi aiuole ben in vista. Se le aveste visitate qualche mese fa, le avreste trovate stracolme di cavoli, carote, lattughe, cipolle primaverili, insomma, di ogni sorta di verdura e foglie di insalata.
Oggi le aiuole sono vuote. Come mai? La gente ha passeggiato sopra il piazzale della stazione di polizia in pieno giorno e ha preso le verdure. E cosa stanno facendo i poliziotti riguardo a questo furto sfacciato commesso sotto i loro nasi? Un bel niente, e questo non è molto corretto.
“Ho visto dalla videocamera di sorveglianza alcune persone mentre arrivavano e le raccoglievano” afferma il responsabile d’ufficio Janet Scott, con un sorriso enorme.
Il sorriso che spiega tutto.
Così, alla fine viene fuori che i “ladri di verdure” non sono per niente ladri. Le carote della stazione di polizia – e le migliaia di verdure nelle 70 grosse aiuole intorno alla città – sono lì per essere raccolte. Le persone del posto sono stimolate ad aiutarsi a vicenda. Un po’ di pomodori qui, una manciata di broccoli là. Se sono di stagione, sono loro. Gratis.
Dunque ci sono (o meglio c’erano): lamponi, albicocche e mele lungo il sentiero del canale; ribes nero, ribes rosso e fragole dietro lo studio medico; fagioli e piselli all’esterno del college; ciliegie nel parcheggio del supermercato, menta, rosmarino, timo e finocchio nei pressi dell’ospedale.
Gli orti sono il segno più visibile di un piano straordinario: rendere Todmorden la prima città nella nazione autosufficiente dal punto di vista alimentare.
“E noi vogliamo farlo entro il 2018” dice Mary Clear, 56 anni, nonna di 10 nipoti e co-fondatrice di “Incredible Edible” (incredibilmente commestibile)”, come viene chiamato il progetto.
“E’ un piano molto ambizioso. Ma se non miri a qualcosa in alto, puoi anche stare a letto, o no?”
Dunque cosa mi vieta di andare con una grossa borsa e prendere tutto il rosmarino nella città?
“Niente.” risponde Mary.
Cosa mi vieta di rubarmi tutte le mele?
“Niente.”
Tutti i vostri lamponi?
“Niente.”
Semplicemente, questo non accade, dice. “Abbiamo fiducia nelle persone. Noi crediamo veramente – e siamo testimoni di ciò – che le persone sono oneste.”
Quando lei vede un rappresentate, o un affarista che raccoglie i frutti per il suo pranzo, prova solo piacere. Che problema c’è, argomenta Mary, se una volta ogni tanto arriva qui con la scatoletta e scopre che tutte le fragole non ci sono più?
“Questa è una rivoluzione” afferma lei “ma noi siamo rivoluzionari gentili. Tutto ciò che facciamo è fondato sulla gentilezza.”
L’idea è venuta fuori dopo che lei e il co-fondatore Pam Warhurst, ex proprietario del “Bear Cafe” della città, iniziarono a discutere riguardo allo stato del mondo e a chiedersi cosa avrebbero potuto fare.
Hanno dedotto che tutto quello che potevano fare era di partire a livello locale, così riunirono un gruppo di persone, soprattutto donne, insieme in un bar.
“Quando gli uomini bevono, nei bar succedono sempre casini e risse, invece quando sono le donne a riunirsi insieme a bere un caffè succedono solo belle cose” dice Mary. “I nostri pensieri erano: si danno molte colpe al mondo, è colpa dei governi locali, dei politici, dei banchieri, della tecnologia – allora abbiamo pensato: facciamo noi qualcosa di positivo.”
Siamo in piedi in un parcheggio in centro. Mary indica delle tenute di case sulla collina e la sua faccia si illumina.
“I bambini passano di qui prima di andare a scuola. Abbiamo riempito le aiuole con dei finocchi e tutti loro hanno imparato che se dai un morso ai finocchi, hanno un sapore di caramelle alla liquirizia. Quando ho visto dei bambini mettere in bocca piccoli bocconi di erba, ho pensato soltanto una cosa: è brillante.”
Mi ha portato oltre il giardino di fronte casa sua, qualche metro più in la. Tre anni fa, quando “Incredible Edible” fu avviato, fece una cosa molto inusuale: abbassò il muro che c’è di fronte,  affinché stimolasse i passanti ad entrare nel giardino e a servirsi di qualsiasi verdura si loro gradimento.
“C’erano dei cartelli che chiedevano alle persone di prendersi qualcosa dall’orto ma ci sono voluti sei mesi alla gente per capire che ciò era davvero possibile” dice. Ora ci sono arrivati.
Ovviamente, solo qualche piccolo centro trasformato in orto – ma nemmeno migliaia di essi – potranno mai sfamare da soli una comunità di 15.000 abitanti.
Le patate alla stazione di polizia però funzionano come dei sergenti di reclutamento, atti ad incoraggiare i residenti a coltivare il proprio cibo a casa.  Oggi, centinaia di cittadini, che iniziarono ad aiutarsi a vicenda per la verdura comunale, sono ormai sulla via per raggiungere l’autosufficienza. Ma fuori sulla strada, che cosa viene piantato? e dove?.
C’è della gentilzza anche in questo.
“Il controllore alla stazione dei treni, che era tanto amato dai paesani, è stato poco bene. Prima di morire gli abbiamo chiesto: “Qual è la tua verdura preferita, Reg?” Erano i broccoli. Così abbiamo piantato letti memoriali di broccoli alla stazione. Anche alla fermata successiva, a Hebden Bridge, dove Reg era molto amato, hanno piantato dei broccoli in sua memoria.
“Non tutte le trame sono – come si può dire in maniera delicata? – ufficiali”
Prendete i cespugli di erbe aromatiche sul canale. Chi lo gestisce, quelli della “British Waterways”, non avevano idea che gli abitanti del luogo avessero seminato le piante in quella zona fino a quando un ufficiale non ha ispezionato quell’area prima della visita del principe del Galles lo scorso anno (Charles è un grande fan di “Incredible Edible”).
Estelle Brown, un ex designer d’interni che ha ha preso parte alla semina, ricevette  una email dalla British Waterways.
“Ero un pò preoccupato di aprirla” ha detto “Ma c’era scritto “Come si costruisce un’aiuola sollevata? Perchè il mio capo ne vuole una fuori dalla finestra del suo ufficio”
“Incredible Edible” è anche qualcosa di più: si tratta di educare le persone sul cibo, e stimolare l’economia locale.
Ci sono lezioni su come raccogliere e conservare la frutta, corsi per fare il pane, e il college locale offre una BTEC in orticultura. L’idea è che i giovani cresciuti lungo le strade di campagna possano fare carriera in agricoltura.
"Incredible Edible" è qualcosa di più di semplici appezzamenti di terra con degli orti: si tratta di educare le persone al cibo e stimolare l'economia locale (nella foto Estelle Brown e Vincent Graff)
Fondamentalmente il programma è anche quello di aiutare le imprese locali.
“The Bear”, un negozio e una meravigliosa cafetteria con una stupenda facciata in stile vittoriano, prende tutti i suoi ingredienti dagli agricoltori entro un raggio di 50 chilometri.
C’è un brillante mercato tutti i giorni. Qui la gente può mangiare bene e con prodotti locali, e centinaia di persona lo stanno già facendo.
Nel frattempo, alla scuola locale è stato assegnato recentemente un assegno da 500.000 sterline, concessi per promuovere una pescheria in grado di fornire cibo per la gente del posto e insegnare abilità utili ai ragazzi.
Jenny Coleman, 62 anni, che si è sistemato qui da Londra, spiega: ”Abbiamo bisogno di fare qualcosa per i giovani. Se hai 18 anni, ci deve essere un’adeguata risposta alla domanda: per quale motivo voglio restare a Todmorden?”
Il giorno che la visitai, la città era scossa da una fredda tempesta. Eppure il posto irradiava calore. Le persone parlavano tra di loro per strada, i vicini ci passavano accanto con la macchina, sorridendo. La frase “siamo tutti sulla stessa barca” ci balena subito in testa.
Quindi che razza di posto è Todmorden (conosciuta nel posto, senza eccezioni, come Tod)? Se pensate che sia popolata da nonne borghesi, ripensateci. Non è nemmeno la mecca di qualche facoltoso club di golf.
Situata nella Pennine valley – la strada che attraversa la città fa da confine tra lo Yorkshire e il Lancashire – è un vibrante mix di etnie, classi sociali ed età. Un terzo delle famiglie non possiede un’automobile e un quinto non dispone di riscaldamento centralizzato. Potete farvi una villetta a schiera con cinquanta mila sterline o spenderne quasi il doppio per una villa con sette camere da letto. E, secondo Pam Warhurst,  il progetto ha portato la comunità ad avvicinarsi.
Un esempio: “La polizia ci ha detto che da quando il tutto è iniziato, c’è stata una costante diminuzione di atti vandalici” dice. “Non ci aspettavamo questo”:
Allora come mai è accaduto?
Pam dice: ‘Se si prende uno spiazzo d’erba di norma utilizzato come pattumiera e per far fare i bisogni ai cani, e lo si trasforma in un luogo pieno di erbe e alberi da frutta, la gente non lo danneggia. Penso che siamo programmati a non danneggiare il cibo.”
Pam calcola che un progetto come Incredible Edible potrebbe prosperare in tanti altri luoghi. “Se la popolazione è di tipo transitorio è difficile, ma se ci sono scuole, negozi, giardini e spiazzi verdi, si può fare”. Iniziative analoghe sono in fase di sperimentazione in 21 altre città del Regno Unito, e c’è stato interesse persino da parte di alcuni posti in Germania e Spagna, a Hong Kong e in Canada. E, questa settimana, Mary Clear, ha tenuto una conferenza per un gruppo di deputati al palazzo Westminister, sede del parlamento inglese.
Todmorden è stata vistata da un urbanista della Nuova Zelanda, al lavoro per ricostruire il suo paese dopo il terremoto di febbraio.
Mary dice: “ Lui è tornato dicendo “Perchè non costruire la stazione dei treni con verdure ed erbe da raccogliere? Perchè non costruire un centro benessere con dei meleti?
“Quello che abbiamo fatto non è stato particolarmente intelligente. Semplicemente non è stato fatto prima d’ora”
L’ultima parola va un outsider. Joe Strachan è un ricco americano ex direttore di vendite che ha deciso di stabilirsi a Todd con la moglie scozzese, dopo molti anni in California. Ha 61 anni ma ne dimostra 40. Si è attivato con Edible Incredible sei mesi fa, e scavare, seminare e fare le spremute non potrebbe renderlo piu felice.  Mi trovo accanto a lui, al riparo dalla pioggia battente. Perchè, mi chiedo, qualcuno abbandonerebbe il sole della California per tutto questo?
La sua risposta riassume un pò quello che la gente ha capito qua intorno.
“C’è della nobiltà a far crescere del cibo e permettere alle persone di condividerlo. C’è la sensazione che stiamo facendo qualcosa di significativo, oltre che lamentarci che lo stato non può prendersi cura di noi. “Forse abbiamo tutti bisogno di imparare a prenderci cura di noi stessi”..
Fonte: DAILYMAIL
http://lospiritodeltempo.wordpress.com/2012/01/07/la-storia-del-paese-che-coltiva-tutta-la-sua-verdura/

martedì 10 gennaio 2012

Pomodori marocchini, banane peruviane, carote danesi. Il biologico che arriva da lontano è così vantaggioso?


Sabato sono andata a fare la spesa nel solito supermercato e nello scegliere la frutta e la verdura la mia attenzione si è concentrata sulla provenienza. Finita l’abbuffata di “primizie” per la tavola delle feste, con stranezze ortofrutticole di ogni genere, di ogni nazionalità e stagionalità, nel banco riservato agli ortaggi bio ho scoperto - con una certa sorpresa - peperoni e pomodori arrivati dal Marocco, carote dalla Danimarca e banane da Perù.
Ma come, mi sono chiesta, biologico dovrebbe fare rima – almeno nella nostra percezione, se non nella lettera della legge che disciplina il settore - con stagionalità, territorio locale, piccoli produttori, oltre che con l'assenza di pesticidi e controlli da parte di enti certificatori che garantiscono il rispetto delle normative sull’agricoltura organica?
Quanto sono coerenti con l’idea di ecologia e sostenibilità ortaggi che hanno attraversato l’Europa da nord a sud o che arrivano dal nord Africa fino a Milano? E che dire delle banane bio che hanno addirittura superato l’oceano?
In realtà, per essere fedele ai principi ispiratori dell’agricoltura organica, chi preferisce acquistare prodotti bio dovrebbe semplicemente rinunciare a mangiare pomodori a gennaio e portare in tavola broccoli, cavolfiori e finocchi. Senza farsi allettare da verdure proprie della bella stagione che arrivano da molto lontano.
Peccatuccio veniale? Può darsi: da noi il bio, pure in crescita negli ultimi anni di pari passo con una maggiore consapevolezza verso le tematiche ambientali, resta un settore di nicchia. Non così altrove, però, dove è in esplosione. Nei paesi anglosassoni, per esempio, esiste la grande catena di supermercati Whole Foods, leader mondiale del commercio al dettaglio nel settore, con oltre 310 punti vendita in Usa, Canada e Regno Unito.
Supermercati davvero spettacolari, per la qualità e l’abbondanza dei prodotti freschi. Con scelte dei generi sugli scaffali molto rigorose: a chi scrive, per esempio, è capitato di sentirsi dire che «Whole Foods non vende integratori per la salute che contengono ingredienti ricavati da specie animali a rischio di estinzione». E allora: che succede dove il bio è un settore "pesante" nella borsa della spesa dei consumatori?
Qualche giorno fa, David Agren in un articolo sul New York Times del 30 dicembre, ha fatto ponderate riflessioni sul tema del boom del biologico e la coerenza con i principi ispiratori, intitolato “L’agricoltura bio forse sta perdendo di vista i suoi ideali”.
Il giornalista parte proprio dai pomodori bio, il prodotto che forse più di altri fa pensare all’estate, al sole, al caldo, ma che ormai siamo abituati a trovare in ogni stagione. Il problema è che a gennaio nei supermercati americani i pomodori, i peperoni e il basilico certificati come bio dal Dipartimento dell’agricoltura spesso arrivano dal deserto messicano e sono coltivati con sistemi di irrigazione intensiva.
I coltivatori della Baja California, cuore dell’export bio, descrivono la loro fatica tra i cactus come “piantumare la spiaggia”. Per dare un’idea dei numeri, la cooperativa Del Cabo ogni giorno manda negli Usa  sette tonnellate e mezzo di pomodori e basilico con aerei e camion, per soddisfare la domanda di prodotti bio in ogni stagione dell’anno. 
Insomma: anche se l’etichetta dice “bio”, il concetto di prodotto non solo privo di sostanze chimiche, ma anche cresciuto localmente da piccoli produttori e nel rispetto dell’ambiente, è un po’ perso. Paradossalmente proprio perché il bio ha sempre più successo tra gli americani: l'enorme aumento della domanda di alimenti più sani o meno contaminati, che oltretutto non tiene conto della stagionalità, sta facendo crescere sì l'offerta, ma a scapito di quelli che dovrebbero essere i postulati dell'agricoltura organica, per sua natura "piccola". 
Così, in Messico - insieme al Cile e all'Argentina il principale fornitore per il mercato bio Usa -  la crescita esplosiva della coltivazione di pomodori biologici sta mettendo a rischio la falda acquifera. In alcune zone, i pozzi sono a secco e questo vuol dire che i piccoli coltivatori non possono irrigare i raccolti.
Non solo: gli stessi pomodori finiscono in una catena distributiva globale per arrivare fino a New York, ma anche a Dubai, producendo emissioni che contribuiscono non poco al riscaldamento globale del pianeta.
Secondo Frederick L. Kirschenmann, del Leopold Center for Sustainable Agriculturedell’Università dell’Iowa, «i consumatori devono dubitare anche di fronte all’etichetta ‘bio’ perché di per sé non è sufficiente per essere davvero informati». Alcuni grandi marchi qualificano come bio anche prodotti ottenuti con pratiche che sono dannose per l’ambiente, come la monocoltura, che impoverisce i suoli, o, appunto, l’ipersfruttamento delle risorse locali di acqua.
Per potersi fregiare del marchio biologico del Dipartimento dell'Agricoltura, le aziende agricole negli Stati Uniti e all'estero devono essere conformi a una lunga lista di standard che, per esempio, proibiscono l'uso di fertilizzanti sintetici, pesticidi e fitormoni. Ma sono pochi i requisiti che riguardano la sostenibilità ambientale, anche se la legge (che risale al 1990) ha previsto  standard che dovrebbero proprio promuovere l’equilibrio ecologico, la biodiversità e la salvaguardia della ricchezza dei suoli e delle risorse idriche.
Gli esperti ritengono che in genere le aziende agricole bio tendono a essere meno dannose per l'ambiente rispetto a quelle convenzionali. Ma se nel passato «agricoltura biologica e agricoltura sostenibile coincidevano, ora non è sempre così», ha detto al New York Times Michael Bomford, ricercatore della Kentucky State University. Aggiungendo che il boom dell’agricoltura bio sta creando problemi anche alle falde acquifere della California.
Qualche ripensamento è già in atto: per esempio, Krav, il più importante organismo svedese di certificazione bio, concede il marchio solo se i prodotti sono coltivati in serre utilizzano almeno l’80 % di energia da fonti rinnovabili. E l'anno scorso il Consiglio nazionale per il settore bio del Dipartimento dell'Agricoltura ha rivisto la normativa, stabilendo che il latte può essere certificato solo se le vacche sono almeno in parte alimentate in pascoli aperti e non solo nei recinti.
Come è ovvio però, ogni tentativo di precisare meglio la definizione di “biologico” comporta inevitabili tira e molla tra agricoltori, produttori di generi alimentari, supermercati e ambientalisti. Così, per esempio, secondo Miles McEvoy, capo del Programma nazionale biologico del Dipartimento dell’agricoltura, «è difficile stabilire a priori quale sia il livello sostenibile di sfruttamento di una falda acquifera per una singola azienda, perché l’ipersfruttamento è comunque il risultato dell’utilizzo combinato di più produttori».
Mentre una volta l'ideale era mangiare solo prodotti locali e di stagione, oggi i consumatori che acquistano gli alimenti bio nelle grandi catene di supermercati americane si aspettano di trovare pomodori a dicembre e sono molto sensibili ai prezzi. Due fattori che incrementano le importazioni. Poche aree degli Stati Uniti possono produrre bio senza ricorrere a serre ad alto consumo energetico. Quanto al costo della manodopera, se un messicano di Baja California prende 10 dollari al giorno per raccogliere pomodori, un raccoglitore della Florida in alta stagione può arrivare a 80 dollari.
Molti coltivatori attribuiscono la scarsità d’acqua allo sviluppo turistico (alberghi e campi da golf), e in effetti  questo è stato uno dei maggiori problemi per le zone costiere del Messico. Ma anche l'agricoltura comporta un dispendio significativo di risorse. Per esempio, secondo uno studio durato un anno ad Ojos Negros, un'area del nord della Baja California, il boom delle piantagioni di cipolle bio destinate all’esportazione, cominciato un decennio fa, ha abbassato la falda acquifera di circa 40 cm all’anno.
La logistica nell’ottenere acqua e trasportare grandi volumi di prodotti deperibili favorisce inevitabilmente le grandi aziende agricole. E mentre per i produttori bio tradizionali frutta e verdura dalla forma insolita o con macchie sono solo varianti della natura, i lavoratori delle aziende agricole su vasta scala hanno ricevuto istruzioni di scartare i pomodori che non rispettano la forma, le dimensioni e le caratteristiche estetiche preferite dai clienti di Whole Foods. Questi prodotti di “seconda scelta” finiscono poi sui mercati locali.
Ma, allora, ha ancora senso parlare di frutta & verdura bio?

Mariateresa Truncellito
foto: Photos.com
Martedì 10 Gennaio 2012